Le abitudini. Gioie e dolori di atteggiamenti e comportamenti consolidati.
Lo scorso week end io e Paolo abbiamo partecipato a Firenze a un bellissimo corso di formazione manageriale sul tema delle abitudini. Organizzato da Federcongressi&eventi e condotto da Marco Marchegiani di 16lab, l’incontro ha portato tutti noi partecipanti ad interrogarci su cosa sono per noi le abitudini e come queste influenzano in modo positivo o negativo la nostra vita personale e professionale. Delle 4 macrocategorie che identificano l’atteggiamento di base nei confronti dell’esistenza e delle novità ho trovato traccia in tantissime situazioni di vita vissuta in privato e in ufficio:
- l’esploratore, colui che si approccia con curiosità, sperimentazione e astensione dal giudizio nei confronti di tutte le cose, situazioni e persone
- il turista, il tipo di persona che vive con maggiore distacco rispetto all’esploratore le novità adottando comportamenti routinari e senza pieno engagement
- il prigioniero, abitudianario e arrendevole (avete presente il tipico “non ce la farò mai”, “tanto non cambierà mai nulla?”, ecc. Ecco, quello…)
- il terrorista, sabotatore, elemento di blocco per gli altri e demotivatore. E’ quello del “non serve a nulla”, “non funzionerà comunque”, “è inutile che ci provi”. Blocca sé stesso e per non dover faticare blocca anche gli altri.
La percezione della realtà
Non ho potuto fare a meno di chiedermi quante volte ho adottato atteggiamenti da terrorista. Spero poche. Mi sembra poche. Sta di fatto che non siamo mai una sola persona né una sola categoria. Affrontiamo le situazioni con un atteggiamento mentale differente a seconda del momento, degli accadimenti laterali, delle circostanze. Ma fermiamoci un attimo a riflettere su noi stessi; possiamo negare che le migliori performance le raggiungiamo quando riusciamo a mantenere quanto più possibile un comportamento da esploratore? Sperimentando la nostra conoscenza, il sapere tecnico, la capacità relazionale e la flessibilità o predisposizione al cambiamento?
Non possiamo parlare di abitudini se prima non parliamo di percezione e interpretazione della realtà.
La percezione soggettiva della realtà e la zona di comfort
Verosimilmente non esiste (o almeno non sempre) una realtà oggettiva e quello che possiamo fare con sempre maggiore attenzione è rendercene conto comprendendo con chiarezza dove inizia e finisce la nostra percezione soggettiva della realtà, quella che influenza le nostre scelte e i nostri atteggiamenti. C’è sempre conflitto fra soggettività e oggettività ed è per questo che è fondamentale essere sempre molto chiari cercando, nel rapporto con gli altri, di spiegare con trasparenza la ragione delle nostre azioni. Queste molto spesso ricadono all’interno della cosiddetta zona di comfort, cioè quell’area di “sicurezza” all’interno della quale ci sentiamo protetti e agiamo nel benessere mentale. La vera sfida non è cancellare quella zona di comfort ma allargarla affinché prendendosi piccoli rischi possiamo esplorare, laddove effettivamente il cambiamento ci porta maggiori benefici, nuove strade. Lo si fa lavorando sull’oggettività (mettere in discussione le proprie convinzioni), sull’autocontrollo (prendendosi piccoli rischi senza stressare troppo i propri limiti), sugli schematismi (allontanandosi gradualmente da qualche sicurezza) e sull’ego (abbandonando un atteggiamento egocentrico e ponendosi invece in sintonia con l’altro e con l’ambiente).
Comunicare con gli altri
E’ davvero importante quest’ultimo aspetto soprattutto in ambito aziendale. Non è infatti scontato che quello che è chiaro o semplice per noi lo sia anche per il nostro interlocutore. E’ necessario, quando si lavora in un gruppo, aspettare e considerare i tempi e le modalità degli altri, non solo le nostre, anche quando siamo convinti che siano le più corrette (soprattutto in quel caso). Questo non significa non prendere mai una posizione forte. A volte va fatto, soprattutto se si è un leader e si ha una posizione di responsabilità. Ma per arrivare alla migliore performance e con il contributo di un team è necessario imparare a guardare oltre la propria abitudine.
L’interpretazione della realtà
Nel viaggio verso il cuore del corso Marco Marchegiani ci ha aiutati con una citazione che ben riassume il senso di quello che ci eravamo detti per diverse ore. “Così come la mappa non è il territorio, il linguaggio non è la realtà“, diceva G. Bateson parlando a proposito della realtà. Cos’è quindi la realtà in base alla quale prendiamo decisioni e consolidiamo abitudini? E’ l’equilibrio fra i fatti e l’interpretazione che gli diamo. Dunque la realtà è spesso un costrutto mentale che viene definita in base alla nostra esperienza. Poi ancora con un’altra famosa citazione di Bandler e Grinder proposta da Marco che recita così: “Gli esseri umani non vivono nella realtà ma in un modello del mondo che hanno elaborato in base alle loro esperienze personali e alla cultura in cui sono nati“. Bene. E quindi la nostra percezione del mondo è da buttar via? No di certo. Ma quanto più riusciamo a mantenere un atteggiamento mentale aperto nell’interpretarla, tanto più le nostre abitudini e le nostre azioni saranno orientate all’atteggiamento dell’esploratore. A cosa dobbiamo stare attenti? Alla generalizzazione (spesso all’origine del pregiudizio), alla cancellazione (la rimozione delle porzioni di realtà che indeboliscono la nostra percezione già formata. Si definisce anche percezione selettiva) e alla deformazione (la tendenza a dare un significato diverso alla realtà a secondo del nostro stato mentale scegliendo istintivamente quello che ci fa più comodo).
Consapevolezza
“Se i fatti non concordano con la teoria, tanto peggio per i fatti“, diceva F. Hegel e ci aiuta a introdurre il termine più di ogni altro da tener bene in mente quando si affronta la realtà. Il termine è consapevolezza. Significa stare un passo avanti alle idee che abbiamo in testa mettendoci in discussione, interrogandoci se le abitudini che abbiamo o gli atteggiamenti con i quali approcciamo la realtà sono effettivamente quelli che ci danno maggiori possibilità di successo, se affrontiamo la realtà con obiettività o se al contrario la interpretiamo nel modo che ci lascia maggiormente nella comodità di non doverci porre domande.
Come agire in modo costruttivo
Non ricordo chi ha detto che la maggior parte delle volte ascoltiamo per controbattere e non per comprendere il reale pensiero dell’altro. Quanto è vero? A mio parere tanto. Dunque la prima regola per iniziare a interagire con gli altri (e con la realtà) è ascoltare in modo attivo. Come farlo? Sospendendo i giudizi valore, osservando e ascoltando con l’intento di apprendere, mettendosi nei panni degli altri, verificando la comprensione di ciò che abbiamo esposto (senza dare per scontato che se dall’altra parte sorgono dubbi la colpa sia dell’interlocutore e non nostra che non ci siamo spiegati bene), dando un feedback, facendo attenzione all’ambiente che creiamo nel momento in cui iniziamo un’interazione.
Facciamo attenzione a come ci poniamo
Quando parliamo con una persona, ad una platea o a un gruppo di lavoro è essenziale saper distinguere i fatti dalle opinionifocalizzandosi, soprattutto in caso di contrasto o ricerca di soluzioni, su fatti quanto più obiettivi possibili (chi, cosa, dove, come, quando, perchè). Invece di dare immediate Tentate Soluzioni (negazione del fatto, evitamento del confronto, sfida, reattività, fatalismo o squalifica dell’interlocutore) proviamo ad assumere Tecniche Positive quali il porre domande invece di fare affermazioni, verificare la comprensione, evocare sensazioni, riassumere per definire e trasformare l’accordo in un piano di azione così da dare credibilità alle parole. Il dialogo in questo modo diventa strategico.
Sapevate perché si conta fino a dieci prima di dare una risposta? Perché è il tempo minimo che un’informazione impiega a trasferirsi dall’amigdala (reazione istintiva) alla corteccia cerebrale (possibilità di riflettere sulla risposta).
Veniamo alle abitudini
Le abitudini sono scelte che compiamo volontariamente spesso o quotidianamente e alle quali smettiamo di pensare. In questo modo il cervello risparmia energia. Il cervello attiva l’abitudine con un segnale, che attiva la routine, che genera gratificazione che riattiva quello che viene comunemente definito il Circolo dell’Abitudine. Quindi l’abitudine non è altro che il soddisfacimento di un bisogno di gratificazione. Il cervello anticipa la gratificazione procurata da una certa azione conosciuta e da inizio all’azione stessa. C’è qualcosa di male in questo? No. O almeno no fintanto che siamo sufficientemente lucidi da comprendere con Consapevolezza la Realtà distinguendo le abitudini che aggiungono valore alla nostra quotidianità da quelle che al contrario gliene tolgono ponendoci in un atteggiamento da Prigioniero o Terrorista.
Creare, Cambiare e abbandonare le cattive abitudini
Siamo gli unici a sapere se un’abitudine ci da o ci toglie qualcosa. O banalmente lascia tutto inalterato. Esistono tante buone abitudini, quelle che ci fanno risparmiare tempo senza togliere qualità, quelle che ci mandano avanti spediti senza metterci i paraocchi, quelle che ci fanno gestire un gruppo rimanendo focalizzati sulla realtà e sulle reali esigenze e così via. Un’abitudine non è sempre da buttar via. Ma altre, a volte, lo sono. Come fare in quel caso? Per prima cosa comprendiamo che per guadagnare qualcosa dobbiamo cedere qualcos’altro perché nessun cambiamento avviene senza fatica, impegno, investimento (di ogni genere). Dopodiché interveniamo sulla routine creandone una nuova che dia come risultato la stessa gratificazione (o maggiore). Individuiamo l’abitudine e la routine che vogliamo abbandonare o modificare in parte, comprendiamo il segnale che il nostro cervello percepisce ogni volta che l’attiva, definiamo la gratificazione che proveremo alla fine della nostra azione e proviamo a costruire una routine sostitutiva. Iniziamo a metterla in pratica con costanza ma gradualmente altrimenti rischiano di trasformare il cambiamento in trauma.
Concludendo
Sembrano concetti messi là in modo un po’ astratto ma se provate a fare uno sforzo e a passare in rassegna le vostre azioni quotidiane vedrete che riconoscerete le vostre abitudini, le vostre routine e le gratificazioni alle quali non sapete rinunciare, probabilmente anche a ragione! Lo stimolo è quello di farvi riflettere se queste abitudini rappresentano una gabbia che vi limita o se invece rappresentano la strada migliore per i vostri obiettivi. Noi al corso, guidati da Marco Marchegiani, abbiamo fatto tantissimi esercizi utilizzando il corpo, stupendoci di come reagisce istintivamente davanti ad alcuni stimoli e di quanta fatica e difficoltà si incontra quando si tenta di governare quell’istintività. Sono ore investite su temi che reputo molto importanti; valore da riutilizzare nella vita privata e maggiormente in un gruppo di lavoro che voglia crescere in modo armonioso. Sono temi che una persona che voglia proporsi come leader deve comprendere, conoscere e padroneggiare per essere una guida capace di essere un punto di riferimento ma anche lo sprone per tirar fuori dal suo gruppo il meglio. Ringrazio insieme a Paolo, Federcongressi per questa opportunità aspettando che su questo stesso filone si organizzino presto altre attività!
Per me e Paolo è piuttosto naturale investire su questo tipo di formazione essendone utenti convinti e anche fornitori con la nostra società. Il coaching in fondo è proprio come una palestra nella quale al posto dei muscoli si allena la mente. Ci vuole un po’ di costanza, convinzione e allenamento mirato ma a nostro avviso non solo ne vale la pena, è un regalo che facciamo a noi stessi e al nostro ben-essere e, allo stesso tempo, indirettamente, lo facciamo alle persone che abitano il nostro mondo.